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Osservatorio sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU)

Sentenze

Sono inseriti in questa sezione elenchi delle sentenze emanate nei confronti dell'Italia, disposte in ordine cronologico ed inserite periodicamente in seguito alla loro emanazione. Il contenuto delle sentenze è illustrato con una breve massima e vi è un link sia alla sintesi predisposta dall'Avvocatura, sia al testo ufficiale della sentenza contenuto nel sito della Corte, nella lingua in cui è redatto

  • Sentenza del: 16/11/2017

    N° ricorso: 30801/06

    Messana n. 3 - in materia di espropriazione indiretta. Constata la violazione dell'art. 1 Prot. n. 1 CEDU, relativo alla protezione della proprietà, poiché l'espropriazione indiretta si pone in contrasto con il principio di legalità, non assicurando un sufficiente grado di certezza giuridica.


  • Sentenza del: 16/11/2017

    N° ricorso: 17527/05

    Conti e Lori - in materia di espropriazione indiretta. La Corte, respinta l'istanza di cancellazione dal ruolo presentata dal Governo convenuto ai sensi dell'art. 37, constata la violazione dell'art. 1 Prot. n. 1 CEDU, relativo alla protezione della proprietà, poiché l'espropriazione indiretta si pone in contrasto con il principio di legalità, non assicurando un sufficiente grado di certezza giuridica.


  • Sentenza del: 26/10/2017

    N° ricorso: 28923/09, 67599/10

    Azzolina e altri - in materia di tortura. Il caso inerisce ai fatti occorsi nella caserma di Bolzaneto a Genova, al termine del G8 del luglio 2001. I ricorrenti, che avevano manifestato nel contesto delle attività del Genoa Social Forum, erano stati dapprima percossi dalle forze dell'ordine in strada, poi trasferiti nella struttura detentiva, taluni previo passaggio in ospedale. Alla loro uscita, essi avevano lamentato ulteriori condotte di percosse, lesioni e ingiurie ed altri trattamenti disumani, quali per esempio l'essere stati costretti a tenere le braccia alzate per molte ore, privati degli effetti personali e medicati senza anestesia. Mentre moltissimi agenti ed esponenti della forza pubblica coinvolti non erano stati neanche identificati, ne era scaturito un procedimento penale a carico di quarantacinque di essi (appartenenti sia a Polizia di Stato e Carabinieri, sia alle forze penitenziarie). La grande maggioranza delle relative posizioni (37 su 45) era stata, tuttavia, definita con l'assoluzione per prescrizione. Le otto condanne dichiarate definitive dopo il giudizio di cassazione, a loro volta, avevano beneficiato dell'indulto del 2006. In buona sostanza, la stragrande maggioranza dei colpevoli identificati non ha scontato un giorno di pena. Di qui il ricorso di numerose vittime, sia italiane, sia straniere, per violazione dell'articolo 3 CEDU, sotto i profili sostanziale e procedurale.

    La Corte di Strasburgo si rifà in larga parte ai precedenti Cestaro del 2015 e Bartesaghi-Gallo del 2017 e, sotto il primo aspetto, prende atto che gli accertamenti di fatto della magistratura italiana hanno condotto a ritenere, senza possibilità di smentita, che attività imputabili allo Stato italiano sono consistite in torture o altri trattamenti inumani o degradanti. Essa, quindi, dichiara sussistente la violazione del divieto di tortura in senso sostanziale. Sotto il secondo profilo, la Corte osserva che, anche sul piano procedurale, l'inchiesta non ha portato a esiti soddisfacenti, dal punto di vista della forza dissuasiva che un ordinamento deve predisporre per prevenire e punire gli atti di tortura. Per un verso, il procedimento si è risolto in assoluzioni per prescrizione, o con l'applicazione dell'indulto, così frustrando ogni esigenza di giustizia e di sanzione; per altro verso, l'Italia non aveva ancora introdotto il reato di tortura nel catalogo dei reati (cosa che ha fatto soltanto con legge n. 110 del 2017), sicché il nostro ordinamento era allora sprovvisto di uno strumento preventivo e sanzionatorio idoneo.


  • Sentenza del: 26/10/2017

    N° ricorso: 2539/13, 4705/13

    Cirino e Renne - in materia di tortura. I ricorrenti, detenuti presso il carcere di Asti, avevano avuto nel 2004 un alterco con alcuni agenti di polizia penitenziaria, a seguito del quale erano stati picchiati e assoggettati a trattamenti non previsti dalle norme vigenti. In particolare, il secondo ricorrente era stato chiuso per sei giorni in una cella con branda di metallo, senza materasso né coperte, dotata solo di un piccolo termosifone malfunzionante, a dispetto delle temperature dicembrine; il bagno non aveva lavandino ma solo un gabinetto turco e una finestra dai vetri rotti; in alcuni giorni, gli erano stati somministrati solo pane e acqua, in altri nulla affatto (successivamente nel gennaio 2017, egli era venuto a morte e la causa dinnanzi alla Corte EDU era stata portata avanti dalla figlia). Ne erano scaturiti procedimenti sul piano sia penale, sia disciplinare, a carico di cinque agenti di polizia penitenziaria.

    Il procedimento penale si era concluso con l'assoluzione di uno di essi per motivi sostanziali e con l'assoluzione di altri due in ragione della derubricazione del reato ascritto da maltrattamenti di persone sottoposte a custodia (art. 572 CP) a lesioni personali (art. 582 CP), con la conseguente dichiarazione della prescrizione; a carico degli ultimi due era stato accertato l'abuso di autorità contro detenuti (art. 608 CP), ma dichiarato prescritto anch'esso. Il procedimento disciplinare, viceversa, si era concluso con la destituzione di questi ultimi due e con la sospensione dal servizio degli altri due imputati, per i quali era stata dichiarata la prescrizione del reato, per periodi rispettivamente di quattro e sei mesi. I ricorrenti lamentavano la violazione dell'articolo 3 CEDU (divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti), sotto entrambi i profili, sostanziale e procedurale.

    La Corte EDU constata senza incertezze la violazione di tale parametro sotto il profilo sostanziale, avendo preso atto delle emergenze processuali (le quali, tra l'altro, avevano evidenziato che i maltrattamenti nei confronti dei detenuti erano un costume generalizzato nello stabilimento di Asti). Essa constata anche la violazione del profilo procedurale, giacché respinge la deduzione della difesa italiana. Quest'ultima aveva infatti argomentato che, con le sanzioni disciplinari inflitte ai responsabili, l'ordinamento nazionale aveva offerto ai fatti una risposta repressiva efficace. Al contrario, la Corte di Strasburgo obietta che, ai fini della tutela preventiva e sanzionatoria di beni preziosi come la libertà della persona e la sua dignità, gli obblighi procedurali gravanti sugli Stati contraenti devono consistere in efficaci e tempestive indagini, con l'adozione di conseguenti misure effettive sul piano penale.

  • Sentenza del: 26/10/2017

    N° ricorso: 1442/14, 21319/14, 21911/14

    Blair e altri - in materia di tortura. Il caso inerisce ai fatti avvenuti nella scuola Diaz-Pertini e nella caserma di Bolzaneto, a Genova durante il G8 del luglio 2001. La magistratura italiana aveva tratto a giudizio numerosi imputati per lesioni dolose, porto abusivo di armi da guerra e una varietà di reati di falso. I fatti di lesione consistevano nell'aver cagionato ai manifestanti che riposavano nell'edificio gravi danni alla persona (fratture agli arti, lesioni agli organi interni, ecchimosi di varia gravità e altri). Il signor Blair era tra questi manifestanti e si era costituito parte civile nel processo. Analoghe circostanze erano accadute agli altri 27 ricorrenti. In tribunale, tutti costoro avevano ottenuto il riconoscimento di un risarcimento del danno per somme varianti dai 2 mila e 500 a 15 mila euro a carico dell'erario. La corte d'appello aveva confermato questa statuizione, la quale aveva anche superato il vaglio della Cassazione.

    Senonché, in ragione sia del decorso del tempo - che aveva determinato la prescrizione dei reati - sia dell'indulto del 2006 sia ancora delle decisioni giudiziali sui diversi passaggi probatori e sia, da ultimo, della mancanza nel nostro ordinamento penale del reato di tortura, i ricorrenti avevano assistito alla definitiva assoluzione di molti dei soggetti responsabili delle lesioni da lui subite. Né costoro erano stati sottoposti a procedimento disciplinare alcuno. Per questo si erano rivolti alla CEDU, lamentando la violazione dell'articolo 3 della Convenzione (divieto della tortura e di trattamenti disumani e degradanti).

    La Corte - similmente ai precedenti Cestaro del 2015 e Bartesaghi Gallo del 2017 - evidenzia che l'art. 3 impone anche obblighi procedurali di sanzionare i responsabili delle violazioni, che l'ordinamento nel suo complesso aveva impedito di adempiere. In questo contesto, i ricorrenti potevano vantare un diritto alla giustizia che è stato loro negato. Sicché - accertata la sussistenza di fatti di tortura contrari all'articolo 3 - la Corte all'unanimità condanna l'Italia per la violazione del medesimo articolo 3 sotto i profili sia materiale sia procedurale.

  • Sentenza del: 19/10/2017

    N° ricorso: 8726/09 e altri

    Alpe Società Agricola Cooperativa e altri - in materia di diritto ad un processo equo, sotto il profilo della ingerenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia. Nel corso degli anni '80 (del secolo scorso), la legislazione italiana prevedeva una serie di benefici fiscali e contributivi per le aziende agricole, con riguardo ai rapporti di lavoro da queste intrattenuti con i dipendenti. Nel luglio 1988 l'INPS, aveva emanato una circolare applicativa in cui si chiariva la natura alternativa tra i benefici fiscali e quelli contributivi. 39 società agricole, la cui sfera era stata attinta negativamente dalla determinazione dell'ente previdenziale, avevano adito la sede giurisdizionale per l'annullamento della circolare. Nelle more del giudizio, era stata approvata la legge n. 326 del 2003, che aveva recepito il contenuto della circolare, ribadendo la natura alternativa e non cumulativa dei benefici fiscali, da un lato, e previdenziali, dall'altro. Il contenzioso domestico era stato quindi definito in senso sfavorevole alle società agricole interessate. Queste avevano pertanto adìto la CEDU, lamentando la lesione del diritto a un processo equo, in ragione della retroattività della disposizione legislativa introdotta.
    La Corte - conformandosi alla sentenza Silverfunghi c. Italia - conclude che vi è stata violazione dell'art. 6 della Convenzione.

  • Sentenza del: 12/10/2017

    N° ricorso: 26073/13

    Cafagna - in materia di diritto a un processo equo. II ricorrente era stato condannato in via definitiva ad un anno e quattro mesi di reclusione per la sottrazione del portafoglio in danno di una persona che aveva - sì - sporto denunzia presso i carabinieri e svolto un riconoscimento fotografico dell'autore del fatto-reato, ma poi si era resa irreperibile e non aveva mai deposto a processo. Il ricorrente aveva adìto la Corte EDU lamentando di essere stato condannato sulla base di quella deposizione, in violazione del principio del contraddittorio (art. 6 CEDU).

    La Corte, rilevato che non vi è mai stato un confronto diretto tra accusato e accusatore, né durante il processo, né durante le indagini preliminari, stante la mancata comparizione all'udienza davanti al GIP della persona offesa e che le autorità giurisdizionali interne non hanno potuto apprezzare correttamente ed equamente l'affidabilità della prova, ritiene che il diritto alla difesa del ricorrente ha subito, nel caso di specie, una limitazione incompatibile con il diritto ad un processo equo garantito dall'art. 6 par. 1 e 3 lettera d) della Convenzione.

  • Sentenza del: 12/10/2017

    N° ricorso: 21759/15

    Tiziana Pennino - in materia di trattamenti disumani e degradanti. La ricorrente era stata fermata per un controllo da due agenti della polizia municipale di Benevento mentre era alla guida del suo autoveicolo. Ella si era rifiutata di sottoporsi all'alcoltest e aveva avuto, per questo, un violento diverbio con gli agenti, che l'avevano pertanto trasferita presso il comando. Presso di esso, ella ha sostenuto di essere stata sottoposta a maltrattamenti. Gli agenti le avrebbero negato la possibilità di contattare parenti o un avvocato e poi le avrebbero fratturato il pollice, oltre che a procurarle altre lesioni. Sui fatti si erano aperti due distinti procedimenti penali: quello nei confronti della Pennino, accusata di vari reati tra cui la resistenza e l'oltraggio a pubblico ufficiale, la guida sotto l'influenza di alcool e le lesioni personali nei confronti di un agente di polizia; e quello promosso nei confronti degli agenti medesimi per i fatti di cui ella si dichiarava vittima.

    Mentre nel procedimento di cui era imputata la ricorrente i tempi furono piuttosto brevi e si giunse a una sentenza patteggiata, viceversa in quello nei confronti degli agenti pervenne in definitiva all'archiviazione (peraltro, motivata dal GIP in modo molto sommario).

    La ricorrente ha quindi promosso ricorso alla Corte EDU, lamentando la violazione del parametro dell'art. 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti), sotto l'aspetto sia sostanziale sia procedurale. La Corte conclude che vi è stata violazione dell'art. 3 sotto entrambi i profili. Per un verso, accerta che in effetti la Pennino era stata sottoposta immotivatamente a un trattamento degradante, poiché è rimasta del tutto indimostrata la necessità di far ricorso alla forza; per altro verso, la Corte argomenta che l'inchiesta scaturita dalla sua denunzia non è stata accurata, poiché ha trascurato importanti elementi degli eventi contestati.


  • Sentenza del: 05/10/2017

    N° ricorso: 32269/09

    Mazzeo - in materia di processo equo. Una donna residente a Ceppaloni (BN), la signora Scocca, era insegnante in una scuola materna comunale. La scuola era stata chiusa con decreto del presidente della regione Campania nel 1981. Nel 1988, insieme al personale della scuola, la signora Scocca era stata assunta dal comune, salvo venirne licenziata nel 1990. La Scocca aveva pertanto impugnato il licenziamento al TAR ma il suo ricorso era stato respinto; era stato invece accolto - nel 2006 - l'appello coltivato dai suoi eredi al Consiglio di Stato, il quale aveva condannato il comune di Ceppaloni anche a versare spettanze non corrisposte per più di 220 mila euro. Il comune non aveva eseguito il giudicato, sicché gli eredi si erano rivolti nuovamente al Consiglio di Stato per l'ottemperanza.

    Nel frattempo, il comune aveva annullato in via di autotutela l'atto con cui la Scocca era stata assunta, argomentando che il suo contratto - illo tempore - avrebbe dovuto rivestire il carattere del tempo determinato e non quello dell'indeterminato. Preso atto di questo annullamento, il Consiglio di Stato aveva respinto il ricorso in ottemperanza, mentre ancora pendeva al TAR il ricorso sull'atto da parte degli eredi.

    Di qui il ricorso di questi ultimi alla Corte EDU, per la lamentata violazione degli articolo 6, comma 1, della Convenzione, e 1 del Protocollo 1. La Corte accerta la violazione di entrambi i parametri: l'ordinamento italiano nel suo complesso ha violato - sia tramite lo stratagemma dell'annullamento in autotutela dell'atto di assunzione della madre dei ricorrenti, sia mediante la mancata esecuzione del giudicato - il principio dell'affidamento e della certezza del diritto, consustanziali tanto all'equità del processo quanto alla legittimità di eventuali interferenze statuali nel diritto al godimento dei beni.

  • Sentenza del: 14/09/2017

    N° ricorso: 17739/09

    Bozza - in materia di ragionevole durata del processo. La ricorrente aveva promosso ricorso ai sensi della cd. legge Pinto per lamentare l'eccessiva durata del procedimento di cui era stata parte, che si era svolto dal 21 ottobre 1994 al 25 gennaio 2005. Ella assumeva che la «decisione interna definitiva» da prendere in considerazione ai fini del calcolo del termine di sei mesi per proporre la domanda di equo indennizzo era la decisione del 25 gennaio 2005 del giudice dell'esecuzione, a cui si era rivolta per ottenere il pagamento della somma a lei spettante riconosciuta con sentenza divenuta definitiva il 25 gennaio 2004. La corte d'appello aveva invece dichiarato il ricorso inammissibile perché tardivo, in quanto aveva ritenuto che la decisione interna definitiva era quella resa a conclusione del procedimento di merito. Tale pronuncia venne confermata anche dalla Cassazione.

    La ricorrente aveva quindi adito la Corte EDU, lamentando in primo luogo l'eccessiva durata del procedimento e che il rigetto della sua domanda di risarcimento era in contrasto con la giurisprudenza della Corte, secondo la quale il giudizio dell'esecuzione sarebbe parte integrante del «processo» ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione.

    La Corte rigetta l'eccezione del Governo relativa alla tardività del ricorso e conclude che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione in ragione della durata eccessiva del procedimento.

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