Sono inseriti in questa sezione elenchi delle sentenze emanate nei confronti dell'Italia, disposte in ordine cronologico ed inserite periodicamente in seguito alla loro emanazione. Il contenuto delle sentenze è illustrato con una breve massima e vi è un link sia alla sintesi predisposta dall'Avvocatura, sia al testo ufficiale della sentenza contenuto nel sito della Corte, nella lingua in cui è redatto
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Sentenza del: 21/07/2015
N° ricorso: 18766/11, 36030/11)
Oliari e altri - in materia di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Tre coppie omosessuali hanno adito la Corte EDU lamentando che l'ordinamento giuridico italiano non consente a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio né riconosce altre forme di unioni civili. Invocando l'articolo 8 CEDU (diritto alla vita privata e familiare), da solo e in combinato disposto con l'articolo 14 (divieto di discriminazione), essi hanno sostenuto di essere vittime di una discriminazione fondata sull'orientamento sessuale contraria alla Convenzione.
La Corte, all'unanimità, ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell'art. 8 CEDU, avendo accertato che la protezione giuridica attualmente offerta alle coppie dello stesso sesso in Italia non solo è incapace di provvedere ai bisogni fondamentali di una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non è sufficientemente certa. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che l'Italia sia venuta meno all'obbligo di assicurare ai ricorrenti una cornice legale specifica che riconoscesse e proteggesse la loro unione. In particolare nella sentenza è stato evidenziato che il riconoscimento legale delle coppie omosessuali non rappresenterebbe un peso particolare per lo Stato italiano. A giudizio della Corte, in alternativa all'istituto del matrimonio, un'unione civile o una partnership registrata sarebbe il modo più adeguato per riconoscere legalmente le coppie dello stesso sesso.
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Sentenza del: 30/06/2015
N° ricorso: 39294/09
Peruzzi - in materia di libertà di espressione.Il ricorrente è un avvocato, condannato in via definitiva per il reato di diffamazione. Nel 2011 aveva inviato al CSM una lettera nella quale si era lamentato del comportamento tenuto da un giudice del tribunale di Lucca, e ne aveva diffuso il contenuto con una "circolare" indirizzata a vari giudici del medesimo tribunale. Dopo la condanna definitiva, invocando l'art. 10 CEDU relativo alla libertà di espressione, aveva adito la Corte EDU e sostenuto che la condanna stessa era insufficientemente motivata. Nella lettera egli infatti si era limitato ad esporre le proprie considerazioni sui diversi modi di interpretare ed esercitare il mestiere di giudice, mentre non sarebbe stata provata la sua intenzione di minare la reputazione e l'integrità del giudice. La Corte - con una maggioranza di 5 a 2 - ha ritenuto infondata la doglianza. A giudizio della Corte, l'ingerenza nel diritto del ricorrente alla libertà di espressione può essere ragionevolmente ritenuta «necessaria in una società democratica» allo scopo di tutelare la reputazione altrui e garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario ai sensi dell'articolo 10 § 2. Di qui l'accertamento di non violazione di questa disposizione.
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Sentenza del: 21/06/2015
N° ricorso: 38369/09
Schipani e altri - in materia di diritto ad un processo equo. Il caso prende le mosse dal ricorso intentato da alcuni medici contro il Governo italiano, al fine di ottenere la riparazione dei danni subiti in ragione del recepimento tardivo nel diritto interno delle direttive comunitarie che riconoscevano loro il diritto di percepire, durante il periodo di formazione professionale, una remunerazione adeguata. A fronte del rigetto delle loro istanze in tutti i gradi di giudizio, essi hanno adito la Corte EDU, lamentando in particolare la decisione della Corte di Cassazione di rigettare il ricorso senza sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia e senza motivare la sua decisione su questo punto. La Corte EDU ha constatato la violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione, relativo al diritto ad un processo equo, non avendo trovato nella sentenza contestata alcun riferimento alla richiesta di rinvio pregiudiziale formulata dai ricorrenti e alle ragioni per le quali è stato ritenuto che la questione sollevata non meritasse di essere trasmessa alla CGCE.
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Sentenza del: 16/06/2015
N° ricorso: 20485/06
Mazzoni - in materia di diritto a un processo equo. La causa prende le mosse dal ricorso promosso da un ex militare - che era stato condannato per appropriazione indebita e al risarcimento del relativo danno erariale - al fine di ottenere l'indennizzo per eccessiva durata del processo. La Corte d'appello respinse il ricorso, ritenendo che la durata di ciascun grado del processo penale non era stata irragionevole, e che comunque il ricorrente non aveva provato di aver subito dei danni patrimoniali. Non si pronunciò sul danno morale. Avverso tale decisione il Mazzoni propose ricorso davanti alla Corte di cassazione. La Suprema Corte lo dichiarò inammissibile, in quanto il ricorrente non aveva specificatamente contestato le conclusioni della Corte d'appello. Il Mazzoni ha quindi adito la Corte EDU lamentando che la dichiarazione di inammissibilità del suo ricorso aveva leso il suo diritto a un tribunale, tutelato dall'art. 6, par. 1 CEDU, e che le retribuzioni arretrate trattenute a compensazione del danno erariale violassero l'art. 1 Prot. n. 1 CEDU.
La Corte: 1) ha dichiarato non sussistente la violazione dell'art. 6, par. 1, CEDU, in quanto la declaratoria di inammissibilità non ha costituito un ostacolo sproporzionato al diritto di accesso alla giustizia e che, pertanto, non è stata lesa la sostanza del diritto del ricorrente a un tribunale come garantisce l'articolo 6 § 1 della Convenzione; 2) ha dichiarato che non vi è stata violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, in quanto la contestata ingerenza nei beni del ricorrente non è sproporzionata rispetto allo scopo perseguito, non avendo essa avuto l'effetto di privarlo dei mezzi necessari per provvedere ai suoi bisogni e alle sue esigenze vitali. -
Sentenza del: 07/06/2015
N° ricorso: 9056/14
Akinnibosun - in materia di affidamento di minori. Il caso prende le mosse dal ricorso presentato da un cittadino di nazionalità nigeriana che, insieme alla figlia minore, era giunto in Italia nel 2008 ed era stato inserito in un progetto per la protezione dei rifugiati. I servizi sociali, che avevano in cura la minore fin dal suo arrivo in Italia, constatarono da subito la difficile relazione tra il ricorrente e la figlia. Quando nel 2009 il ricorrente venne arrestato e sottoposto alla misura della custodia cautelare, la figlia venne data in affidamento.
Gli incontri tra padre e figlia, inizialmente autorizzati dal Tribunale per i minorenni, vennero sospesi a fronte del rapporto dei servizi sociali, in cui si descriveva lo stato di tensione della minore nei confronti del padre e lo stress da lei manifestato a seguito degli incontri. Per giustificare la propria decisione, il tribunale addusse l'impossibilità per il ricorrente di occuparsi della figlia e la mancanza di progetti per il futuro, circostanza che rendeva gli incontri pregiudizievoli per la minore. Successivamente, nel 2014, il tribunale per i minorenni dichiarò lo stato di adottabilità della minore, avendo accertato che il ricorrente non era in grado di occuparsi della minore e che quest'ultima si trovava in stato di abbandono. L'adottabilità della minore venne confermata dalla Corte d'appello, con una decisione che non venne impugnata in Cassazione.
Il ricorrente, invocando gli articoli 8 e 14 della Convenzione, ha quindi adito la Corte EDU lamentando il mancato rispetto della sua vita familiare e contestando alle autorità, che avevano inizialmente vietato qualsiasi contatto con la figlia e successivamente avviato la procedura finalizzata all'adozione della stessa, di non aver adottato le misure appropriate allo scopo di mantenere un qualsiasi legame con lei. La Corte ha ritenuto che le autorità italiane, prevedendo come unica soluzione la rottura del legame familiare, non si siano adoperate in maniera adeguata e sufficiente per fare rispettare il diritto del ricorrente di vivere con la figlia, violando in tal modo il suo diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall'art. 8 CEDU.
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Sentenza del: 07/06/2015
N° ricorso: 38754/07
Odescalchi e Lante della Rovere - in materia di espropriazione. Il caso concerne la destinazione d'uso a verde pubblico di un terreno, di proprietà dei ricorrenti, da parte del piano regolatore generale che ne imponeva il vincolo di inedificabilità assoluta in vista della sua espropriazione. Sebbene la suddetta autorizzazione all'esproprio fosse decaduta nel febbraio 1980, il terreno non fu liberato da vincoli. Nell'attesa della decisione del comune di Santa Marinella in merito alla nuova destinazione urbanistica da attribuire al terreno, quest'ultimo fu assoggettato al regime detto delle «zone bianche», previsto dall'articolo 4 della legge n. 10 del 1977 e ai relativi divieti di costruire.
Adite le vie legali, i ricorrenti ottennero una pronuncia favorevole nel 2009, con la quale si intimava al comune di Santa Marinella di decidere la destinazione d'uso, e si procedeva alla nomina di un commissario ad acta. A fronte dell'inerzia dell'amministrazione comunale il commissario ad acta rinnovò l'autorizzazione all'esproprio di tutto il terreno dei ricorrenti destinando quest'ultimo a verde pubblico.
I ricorrenti hanno impugnato tale decisione. Nelle more del giudizio, pendente alla data della pronuncia della sentenza della Corte EDU, il terreno è rimasto sottoposto alle «misure conservative» conseguenti alla decisione del commissario ad acta.
I ricorrenti hanno adito la Corte EDU, lamentando l'eccessiva durata del divieto di costruire imposto al loro terreno a seguito dell'autorizzazione all'esproprio e nonostante quest'ultima sia scaduta nel 1980. Sostengono che questa situazione, in mancanza di indennizzo, è incompatibile con l'articolo 1 del Protocollo n. 1.
La Corte, considerate le circostanze della causa, in particolare l'incertezza e l'inesistenza di ricorsi interni effettivi che potessero rimediare alla situazione denunciata, combinate con l'ostacolo al pieno godimento del diritto di proprietà e alla mancanza di indennizzo, ha ritenuto che i ricorrenti hanno dovuto sostenere un onere speciale ed eccessivo rompendo il giusto equilibrio che deve essere mantenuto tra le esigenze dell'interesse generale e la salvaguardia del diritto al rispetto dei beni. Pertanto ha constatato la violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 CEDU.
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Sentenza del: 19/05/2015
N° ricorso: 40205/02
Mongelli e altri - in materia di ragionevole durata del processo. Constata la violazione dell'art. 6, par. 1 CEDU, relativamente al ritardo nell'erogazione dell'equa riparazione ex lege n. 89 del 2001.
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Sentenza del: 05/05/2015
N° ricorso: 38591/06
Mango - in materia di espropriazione indiretta. Constata la violazione dell'art. 1 Prot. n. 1 CEDU relativo alla protezione della proprietà, poiché l'espropriazione indiretta si pone in contrasto con il principio di legalità, non assicurando un sufficiente grado di certezza giuridica.
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Sentenza del: 05/05/2015
N° ricorso: 14231/05
Russo - in materia di espropriazione indiretta. Constata la violazione dell'art. 1 Prot. n. 1 CEDU relativo alla protezione della proprietà, poiché l'espropriazione indiretta si pone in contrasto con il principio di legalità, non assicurando un sufficiente grado di certezza giuridica.
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Sentenza del: 14/04/2015
N° ricorso: 66655/13
Contrada n. 3 - in materia di legalità dei reati e delle pene. Nel 1996 il ricorrente era stato condannato a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, in relazione a fatti che si erano verificati tra il 1979 e il 1988. Il ricorrente propose appello, sostenendo in particolare che all'epoca dei fatti il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non poteva essere ritenuto sussistente, in quanto tale fattispecie delittuosa era stata il prodotto di una lunga evoluzione giurisprudenziale consolidatasi solo molto tempo dopo. Con sentenza del Maggio 2001 la Corte di appello di Palermo respinse il gravame. Dopo che il caso fu annullato con rinvio dalla Corte di cassazione, un'altra sezione della Corte di appello di Palermo, con sentenza resa nel febbraio 2006, confermò la prima sentenza di condanna, stabilendo che i giudici di prime cure avevano correttamente applicato i principi, relativi alla materia in questione, che si erano consolidati in giurisprudenza. Il ricorso di legittimità proposto dal ricorrente fu rigettato dalla Corte di cassazione con sentenza del Gennaio 2008.
Il Contrada ha adito la Corte EDU e, invocando l'art. 7 della Convenzione (nulla poena sine lege), lamentava che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa era stato il prodotto di una lunga evoluzione giurisprudenziale consolidatasi solo molto tempo dopo la commissione dei fatti per i quali era stato incriminato.
La Corte EDU, in considerazione del fatto che il reato in esame era il risultato dell'evoluzione giurisprudenziale, iniziata verso la fine degli anni '80 e consolidatasi solo nel 1994, ha affermato che non si poteva ritenere che fosse sufficientemente conosciuto da parte del Contrada al momento dei fatti in questione. La Corte ha quindi concluso per la violazione dell' Articolo 7.